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Pensiero del giorno.... Le città invisibili, tra letteratura e architettura

La lettura del romanzo "Le città invisibili" (1972) di Italo Calvino pone una certezza: si tratta di un capolavoro di architettura, ancora prima che di letteratura. Le descrizioni che Marco Polo, il protagonista del saggio, produce delle città visitate sono talmente sovrassature di suggestioni urbanistiche che farebbero rodere i più illustri critici di architettura in quanto ad originalità, pulizia nell'esposizione, pregnanza dei messaggi. Cinquantacinque città descritte in maniera essenziale in appena un centinaio di pagine. L'interlocutore di Marco Polo è l'imperatore cinese Kublai Kan. Egli pende dalle labbra del veneziano per poter finalmente conoscere i luoghi del proprio regno. La "dipendenza" intellettuale che si instaura tra viaggiatore e sovrano è la stessa prodotta tra narratore e lettore. Per quanti ancora non avessero letto il libro, e per rinfrescare la memoria degli altri, propongo un breve passo utile a capire quanto sopra esposto.

LE CITTà E I SEGNI. 1.
"L'uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l'occhio si ferma su una cosa, ed è quando l'ha riconosciuta per il segno d'un'altra cosa: un'impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d'acqua, il fiore dell'ibisco la fine dell'inferno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.
Finalmente il viaggio conduce alla città di tamara. Ci si addentra per vie fitte d'insegne che sporgono dai muri. L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l'erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa - chissà cosa - ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito - entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l'edicola, pescare con la canna dal ponte - e di ciò è lecito - abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell'ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d'altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti. Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l'uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s'estende la terra vuota fino all'orizzonte, s'apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l'uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante..."

Non vogliamo in alcun modo analizzare i contenuti del testo, ma provare a porre qualche domanda relativa al rapporto tra letteratura e architettura, forti delle convincenti tesi di Paul Ricœur (1913-2005) a proposito dello stretto legame tra Narrativa e Architettura (per approfondimenti leggi qui). Se il filosofo francese si è occupato di mettere in evidenza i rapporti di similitudine intercorrenti tra i segni e i significati tipici dei due "saperi", adesso vorremmo gettare uno sguardo sulla cultura contemporanea e sugli strumenti di analisi e critica che ci vengono messi a disposizione.
Lo spunto di Calvino e de "le città invisibili" pone un urgente quesito:

1 - Come è possibile che uno scrittore, un letterato vecchio stampo, sia riuscito a scrivere una pagina così memorabile sull'Architettura? Forse disponeva di qualche strumento particolare?
A questa domanda non può essere data una risposta definitiva, magari una risposta "invisibile" da ricercare su vasta scala.
Cominciamo con un'analisi sul presente. Pensiamo per un attimo alla preparazione scolastica superiore che la maggiorparte di noi ha ricevuto. Con la maturità concludevamo un percorso che ci permetteva di prendere un qualsiasi testo letterario, dalla poesia alla narrativa, ed eseguire l'analisi grammaticale, l'analisi logica, l'analisi del testo e prime bozze di critica attraverso recensioni, articoli giornalistici fino a giungere al famigerato "saggio breve", ovvero un testo portavoce delle nostre tesi. Un bagaglio culturale di tutto rispetto e comune all'universalità di indirizzi scolastici. Adesso, proviamo a fare lo stesso ragionamento sulle nozioni architettoniche: come si pone uno studente davanti una chiesa, un'abitazione? Con molta probabilità sarà stato "addestrato" a estrapolare informazioni sull'edificio direttamente dalla bibliografia dell'autore. Qualche accenno agli "stili" e alle particolarità. Il gran finale potrebbe essere costituito dall'elencazione di tutte le opere d'arte che contiene, indicazione del tutto ininfluente dal punto di vista architettonico, ma di grande effetto alle interrogazioni.
Si comprende facilmente che L'abisso tra la media preparazione in letteratura e in architettura è insanabile. Bruno Zevi nel suo "Saper vedere l'Architettura" (1948) scrive:

"Ma il San Pietro di Michelangiolo è un opera complessa come la Divina Commedia , e non si comprende perchè si possano impiegare tre anni di studio per analizzare e quindi per godere la Commedia dantesca, e si debba liquidare San Pietro in un veloce accenno fatto durante una lezione sull'architettura del Cinquecento. La sperequazione che esiste tra il tempo dedicato alle arti letterarie e quello impiegato ad illustrare l'architettura non ha nessuna giustificazione critica (ci vuole più tempo a comprendere Sant'Ivo alla Sapienza di Borromini che i Promessi Sposi), ed ha come ultima conseguenza la nostra generale ineducazione spaziale."

Zevi ci dà due informazioni: conferma il problema sull'attegiamento culturale circa la letteratura-architettura e lo sposta indietro negli anni, tanto da indurci a pensare che non si tratti di un impostazione dovuta all'ultima riforma scolastica, bensì di uno dei mali che la contemporaneità ha ereditato dalla modernità. Questo non ci induca a mettere in banale contrapposizione le due materie, non si tratta di una competizione, ma semplicemente di un modo per capire quali temi vengano privilieggiati dalla Cultura dominante. A questo presunto orientamento vadano ad aggiungersi note difficoltà di carattere pratico: se è vero che la letteratura si studia attraverso la letteratura, non possiamo affermare che l'architettura si studi con l'architettura. Sicuramente leggerò la divina commedia, ma non è detto che riuscirò a visitare San Pietro. Nella maggior parte dei casi, l'architettura si studia con la letteratura, una letteratura che va dai manuali alle "storie", dal romanzo alle novelle. Dunque, pare chiara l'indissolubilità di tale rapporto.
Per rispondere in maniera chiusa al quesito precedentemente posto possiamo affermare: si, il letterato ha molti strumenti in più per analizzare il mondo dell'architettura, anche a partire da un'istruzione di base. Calvino ha fatto un'analisi grammaticale della città, verbo per verbo, sotantivo per sostantivo, senza avere la pretesa tutta architettonica di vedere la città nella sua totalità e magari ignorandone le parti.

2 - I letterati e gli architetti analizzano gli stessi argomenti in campo architettonico?
No, la risposta sembra abbastanza chiara.
Per quanti manuali di storia dell'architettura moderna voi possiate leggere, noterete che nessun autore si è preso la briga di riportarvi notizie come quelle che potete trovare su "Maledetti architetti " (1982) di Tom Wolfe, pungente scrittore e giornalista statunitense. Perchè le notizie circa l'odio incondizionato che il buon vecchio Frank L. Wright nutriva per Gropius, Mies e tutti gli "Dei Bianchi" trasferitisi dal Bauhaus agli USA, non sono ininfluenti a priori. E serviva un giornalista per conoscere questa realtà? Conoscere "amici e nemici" degli architetti, ha spesso un peso particolarmente rilevante sul nostro giudizio finale. La critica architettonica comincia ad occuparsi di "gossip" (con non poca riluttanza) solo nel caso in cui la magistratura abbia ravvisato qualcosa di penalmente rilevante. A quel punto si tratta di gossip, ma senza virgolette.
E se da un lato il mondo del giornalismo si concentra sui "fatti" non mancano esempi di studiosi che a vario titolo hanno influenzato pesantemente la teoria sottesa alla critica architettonia: dal succitato Paul Ricoer al filosofo Jacques Derrida, ai "nonluoghi" di Marc Augè. Anche Calvino in un certo senso si è occupato di pura teoria, pura astrazione fino a giungere all'invisibile. Questi campi di indagine sembrano mancare tra i "prodotti" degli architetti: pochi fatti e poca teoria. Parole che ritroviamo dappertutto come "identità", "archistar", "genius loci" sono sintomatiche di tale rinuncia.

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