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I luoghi dell'Arte

Lo Sviluppo dell’Architettura Museale nella Modernità

Da sempre la progettazione di un museo pone di fronte al difficile compito di trovare l’equilibrio tra fattori contrastanti: struttura e forma che si adattino al contesto, urbano o naturale, e ma anche alla funzione programmatica dell’edificio stesso. In passato la tendenza era quella di lasciare alle opere esposte il ruolo di protagoniste, rendendo l’architettura un mero fondale neutro, curato secondo il gusto del tempo, ma senza rimandi reciproci tra oggetto e “contenitore”. Il primo episodio di modernità nella progettazione di musei può essere rintracciato nella facciata orientale del Louvre, realizzata nel ‘600 da Claude Perrault. Sotto il profilo tecnico-costruttivo è lui ad introdurre per la prima volta in Francia l’uso del ferro saldato come rinforzo dei muri. A livello estetico-formale, la sua unica preoccupazione è quella di raggiungere una certa sobrietà e autorevolezza dell’insieme: per questo, adottando uno stile classicheggiante, rifiuta di inserire un sovraccarico di ornamento. A partire dal XIV sec., vediamo apparire musei che rispecchiano di volta in volta le collezioni contenute o la personalità di chi le cura, così da catturare l’attenzione del pubblico o essere esplicativi dei contenuti.
Verso la fine del ‘700 John Soane, fervente collezionista, trasforma la sua abitazione in un’esposizione di opere d’arte e pezzi d’antiquariato. L’aspetto più peculiare è certamente la facciata, dove troviamo applicati dei capitelli in posizione del tutto anomala: la decontestualizzazione consente di mettere in luce che non si tratta di una ripresa neoclassica degli ordini dell’antichità, ma bensì di uno strumento simbolico, che palesa al visitatore già da fuori cosa troverà all’interno.
All’interno vediamo il "farsi da sé dell’architettura": poiché il lotto è chiuso sui laterali da altri edifici, il problema della luce è risolto attraverso l’utilizzo di lucernai. Inoltre i solai sono impostati su quote differenti, con parti forate che permettono di illuminare anche gli ambienti inferiori.

Nel 1828, Karl Friedrich Schinkel realizza l’Altes Museum, a
proposito del quale dichiara di voler “dare forma secondo lo scopo”: elementi dell’architettura greca sono ripresi, ma corretti e trasformati in elementi di carattere simbolico. L’idea è quella di un museo nel quale le collezioni sono organizzate didatticamente e cronologicamente; l’architettura deve infatti educare ed elevare il pubblico, suscitando in esso il senso della propria identità. Schinkel sceglie un impianto che, con il cassettonato e l’oculo centrale, rievoca il Pantheon, anche se sembra che Schinkel abbia operato una grecizzazione del sistema costruttivo romano. La facciata principale risulta assimilabile ad un pronao ionico; l’assenza del timpano indica che non si tratta di un edificio di culto, ma dedicato al culto del sapere. La scelta deriva dal fatto che la Grecia rappresenta l’archetipo della cultura occidentale. In tempi recenti altri architetti sottolineeranno la funzione essenziale in edifici di questo tipo del pronao, quale filtro e mediazione tra il caos urbano e l’interno dove si possono nutrire spirito ed intelletto.
È solo nel ‘900 che inizia la costruzione di edifici espressamente dedicati ad un’arte specifica e ai suoi manufatti; uno degli esempi più celebri è offerto dai musei fatti realizzare per custodire le collezioni di Solomon e Peggy Guggenheim. Lo scopo dei progettisti è quello di fornire metodi di fruizione alternativi e di rendere maggiormente partecipi i visitatori. Per queste ragioni la tendenza moderna è quella a sostituire spazi imponenti e che mettono soggezione, con ambienti a scala umana, studiati per consentire una buona fruizione attraverso sistemi adeguati di illuminazione. La lezione wrightiana conduce all’affermarsi di spazi aperti, articolati attorno a snodi che permettono l’incrociarsi di sguardi tra livelli diversi. Alcuni edifici sono caratterizzati da una monumentalità ridotta all’essenziale, come nel caso della Nationalgalerie di Berlino di Mies van der Rohe; altri ancora, come il Pompidou Centre a Parigi, di Piano e Rogers, sono il frutto di una tendenza a denudarsi dell’architettura, che sceglie di non esprimersi e di vivere sull’esistente.
Il Centro Culturale George Pompidou, realizzato a Parigi nel 1977, è costituito da un parallelepipedo di 50x170 metri, per un’altezza di sei piani.
Nell’interno a pianta libera trovano posto il Museo nazionale d’arte moderna, ambienti per esposizioni temporanee, una immensa biblioteca e alcune sale multifunzionali adattabili a teatro, cinema e per conferenze e seminari. De Fusco e Frampton mettono in evidenza come i progettisti abbiano ideato in questo caso una soluzione “aperta”, facilmente adeguabile alle esigenze funzionali e psicologiche in costante evoluzione. Tale flessibilità, propria dello stile High-Tech, si traduce in uno spazio interno neutro, al limite dell’indifferenza alla funzione, definito da setti mobili. Frampton e Marinelli riconoscono che tale concetto di flessibilità è portato all’estremo, al punto da generare effetti controproducenti: la superficie di parete necessaria alle esposizioni pittoriche è sottodimensionata, rendendo necessaria la costruzione di un altro “edificio” all’interno del volume. Alla flessibilità interna si contrappone un esterno che, nonostante un intento iniziale ancora una volta funzionale, finisce per assumere valenze stilistiche, con l’estroflessione esasperata di impianti e sistemi di collegamento verticali. Zevi fa notare come mal grado le apparenze il Beaubourg non sia estraneo al cuore della capitala francese: “Il gusto ingegneresco sintonizza con gli archi rampanti e i contrafforti dei monumenti gotici adiacenti; vicino a Notre Dame costituisce un punto alternativo di riferimento, già assimilato”. I valori su cui punta sono lo straniamento e la diversità. Qualche critico ha parlato per quest’edificio di “archeologia industriale”, poiché appartiene all’era meccanica e non a quella elettronica: vi è ancora poco di seriale. In realtà un’altra parte della critica (Marinelli) legge in ciò un uso accurato della produzione seriale, che non si accontenta di rapidità di produzione e quantità, ma cerca di dare al singolo elemento un tocco di artigianalità nel disegnarlo appositamente per lo scopo cui è destinato; si tratta di un atteggiamento che riconduce alla filosofia della scuola Bauhaus. E poi c’è il gusto polemico, provocatorio, di scherno verso il modello codificato del museo. Bisognava scegliere tra due nozioni di cultura: quella istituzionale e intimidente e quella non ufficiale, aperta e accessibile al grande pubblico. Noi abbiamo optato per la seconda” (Dini). De Fusco trova un altro limite nella concezione dell’architettura come una rete di canali comunicanti e di strutture funzionali: il pubblico finisce per essere catturato dalla struttura insolita e distratto dalle collezioni artistiche che, nell’intento originale, dovevano essere protagoniste assolute. Si giunge dunque agli ’90, quando si inizia a riscoprire la funzione comunicativa del museo, come luogo sacro e profano dell’arte. L’involucro, che prima doveva semplicemente porre uno stacco dalla frenesia del vivere quotidiano e porre il visitatore nella condizione psichica adatta alla fruizione, riacquista una visibilità assolutà, trasformandosi piuttosto in uno strumento spettacolare e spesso evocativo per catturare l’attenzione del passante. L’architettura museale smette insomma di essere un semplice servizio. Alla fine degli anni ’80 sorgono edifici come il Museo Ebraico a Berlino di Daniel Libeskind: chiaro esempio di come l’architettura ricerchi plasticamente la mimesi con la creatività dell’arte e diventi veicolo di valori e memorie. I
Il Museo dell’Olocausto, costruito tra il 1989 e il 1999, rappresenta in particolare quella categoria di edifici che nascono con un forte intento simbolico, atti a perpetuare la memoria di eventi che hanno segnato la storia dell’umanità. La struttura, con il suo linguaggio decostruttivista, risulta squarciata lungo la gelida superficie metallica, e gli squarci producono all’interno penetranti lame di luce, che raccontano in modo quasi espressionistico la sofferenza e le torture cui fu sottoposto il popolo ebreo. Il lungo corpo di fabbrica si sviluppa secondo una linea a zig-zag, frutto della congiunzione sulla pianta di Berlino dei luoghi simbolo delle atrocità naziste. Accanto alla struttura principale sorge la Torre dell’Olocausto, totalmente priva di finestre. Lo scopo di questa costruzione è di sollecitare emotivamente il visitatore, permettere attraverso accorgimenti psicologici di rivivere per qualche istante il senso di straniamento e di terrore del ritrovarsi in un ambiente buio e privo di punti di riferimento.

Bibliografia:
- Bruno Zevi – Storia dell’architettura moderna (1950)
- Kenneth Frampton – Storia dell’architettura moderna (1980)
- David Watkin – Storia dell’architettura occidentale (1986)
- Tafuri – Architettura contemporanea
- De Fusco – Mille anni d’architettura
- Marinelli Giuseppe – Il Centro Beaubourg a Parigi (1946)
- Dini Massimo – Renzo Piano: Progetti e architetture dal 1964 al 1983
- Casabella Febbraio 2006 – n°741 /Novembre 2000 – n°683

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