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Casa Koshino, di Tadao Ando 1979-83

Relazione scritta nell'ambito del corso di Architettura e Composizione I


- Analisi dei materiali e del linguaggio architettonico + bibliografia
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- Analisi dell'ordine insediativo e principi organizzativi della distribuzione funzionale
- Analisi della struttura, delle finiture e degli elementi tecnologici

Il nome di Tadao Ando è ormai entrato nella breve, ma significativa, storia del calcestruzzo armato. Esempio quanto mai eloquente del perché la critica abbia da subito notato le sue opere, è casa Koshino: già nell’aprile del 1982 la rivista francese “L ‘architecture d’aujour’hui” l’annoverava nella sezione “actualites”. Data significativa questa, se si pensa che l’abitazione non era ancora stata ultimata con l’addizione dello studio, eppure veniva già presa in considerazione da un prestigioso periodico d’architettura. Ciò che veniva allora sottolineato, era l’accostamento naturale-innaturale dei blocchi cementizi con il suolo e i dintorni. Benché oggi gli spunti di riflessione si siano moltiplicati, rimane chiaro che la chiave di lettura di casa Koshino stia proprio nella sua estetica. Un’analisi che prescinde da tale considerazione potrebbe apparire fuorviante. Per capire meglio, concentriamo la nostra attenzione sull’utilizzo del calcestruzzo armato. Ando non ne sfrutta le qualità ingegneristiche come faceva F.L Wright negli arditi sbalzi di casa kaufman; non ne sfrutta le doti plastiche come Michelucci nella chiesa dell’autostrada del Sole; non usa i risultati formali del fare brutalista di Le Corbusier nel convento di La Tourette; non apporta innovazioni sostanziali al calcestruzzo. Sorge allora spontaneo chiedersi perché abbia deciso di utilizzare questo materiale per realizzare l’intera struttura, “trascurando” che il calcestruzzo armato è deprecato come pessimo materiale per quell’edilizia che prende in primaria considerazione il comfort ambientale, il controllo dei rumori e del calore, l’impatto ambientale generato dai processi produttivi e di smaltimento. Tale scelta, secondo F. Del Co, fu fatta per dare continuità ai singoli spazi garantendone un immateriale percezione. Il calcestruzzo riesce a dare linearità soprattutto se, come in questo caso, lo si usa per tutti gli elementi di fabbrica fino a farli coincidere totalmente l’uno con l’altro: struttura portante che funge da chiusura verticale e orizzontale le quali a loro volta sono finiture e ornamenti. Ciò è reso dal punto di vista formale con la ricostituzione dell’archetipo architettonico per eccellenza: la scatola, la stessa scatola che per decenni era stata scomposta, scavata, rimodulata, resa bidimensionale, adesso si rimaterializza, ma non totalmente. Ad aiutare Ando nella sua impresa c’è la luce, la luce solare che con complessi sistemi di captazione, aperture e pareti vetrate appare sempre diversa, artificiale: luce che fende le pareti; luce che penetra nell’edificio; luce che smaterializza i contorni.

I blocchi cementizi cedono corposità appena toccati dai raggi luminosi e le ombre sono l’unico ornamento, assieme i segni della casseratura, sulle lunghe e levigate pareti. Il calcestruzzo per suo conto contribuisce con la purezza delle forme; l’uniformità dei colori; l’innaturalezza del costruito. Il ridotto numero di arredi che fluttuano negli ampi spazi illuminati, la loro forma, il loro colore hanno fatto guadagnare ad Ando la nomina di “minimalista giapponese”. Nulla a che vedere con “l’existence minimum”, ma con il concetto originario di “minimal Art” il quale indicava una composizione di forme pure dalla semplice leggibilità, dove il vuoto è la forma della loro continuità. Tali elementi si traducono per Ando in una cucina modulare in legno, pavimenti a doghe o moquette in fibre naturali, vetrate ininterrotte.

Tutto risponde ad un ottica di integrazione, piuttosto che di giustapposizione, in modo da nascondere ogni traccia di impianto tecnologico al fine di non alterare l’armonia e la continuità ricercata. I colori che vi si possono osservare sono solo quelli che le aperture riescono a catapultare all’interno dalla natura circostante. L’aggettivo “giapponese”, Ando lo ha conquistato per una molteplicità di motivi, ma soprattutto per il suo rapporto di antitesi con tale cultura: in casa Koshino, sempre Del Co sottolinea come ad una continuità di spazi non corrisponda una continuità di percorsi, tipicatipica delle case orientali. In effetti uno studio accurato dei collegamentiorientali. In effetti uno studio accurato dei collegamenti interni ci parla di un groviglio viario atto a sorprendere più che a essere pratico. Dalle foto e dai disegni che si possono osservare su riviste e libri, tale

Bibliografia

  • “Tadao Ando: le opere, gli scritti, la critica ” di Francesco Del Co, 1994
  • “Tadao Ando: monographies” pubblicato da Electa Moniteur 1982
  • “Tadao Ando: architectural monographs” Academy Edition, St. Martin’s Press
  • “L ‘architecture d’aujourd’hui” n° 220 aprile 1982

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