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Nuova Galleria Nazionale di Berlino, 1962-68 - Mies Van Der Rohe

Tesina scritta nell'ambito del corso di storia dell'Architettura II

Mentre era occupato al progetto per il museo a Schwainfurt, Mies van der Rohe venne contattato dalla municipalità di Berlino, che gli offriva l’incarico di un museo che avrebbe ospitato la collezione d’arte del XIX e XX sec. dello stato prussiano. Interrotto il lavoro del museo per la piccola cittadina, si dedicò interamente allo studio della Galleria d’arte sulla Postdamerstrasse di Berlino, la città nella quale aveva trascorso i primi anni di formazione artistica. Cominciò la sua progettazione nel 1962 e venne inaugurata nel ‘68. Il principio su cui si fonda è il medesimo che avrebbe applicato nel
museo della piccola città di Schwainfurt: uno spazio espositivo costituito da una grande copertura a griglia sorretta da otto colonne, libero da strutture portanti intermedie e visivamente aperto verso l’esterno. Con evidente riferimento al Neoplasticismo e al De Stijl, come in molte altre sue opere, Mies realizza l’edificio per mezzo di un’addizione di lastre.
L’edificio è organizzato su due livelli. Il secondo piano, costituito dal portico quadrato (di 50.60 m di lato e 8 m di altez
za) di acciaio, che contiene uno spazio libero, circondato da una vetrata, dove la pianta libera permette la flessibilità delle partizioni interne, permettendo di modificare il percorso espositivo a seconda dell’artista che è invitato a mostrare le sue opere. Questo ambiente poggia su un basamento in pietra, con rivestimento in granito, uno spazio fisso dove trovano posto le collezioni permanenti, una galleria convenzionale. In un museo diverse sono le necessità: da un lato la conservazione, che richiede ambiti chiusi e appartati, dall’altro la presentazione necessita di ambienti comuni, aperti e facilmente percorribili. Ciò permette una ricchezza di possibili modi di fruire l’edificio creando due itinerari diversi: uno, in basso, per i visitatori specializzati e uno, nello spazio più aperto, per quelli generici.
Benevolo inoltre ha osservato che con questa separazione di livelli scompare la divisione dei compiti, tra progettista, committente e costruttori, i quali spesso assumevano il compito destinato al progettista, adesso le parti impegnate sono costrette a collaborare e il progettista si comporta da mediatore tra i costruttori e l’utenza.
Tuttavia nel trattamento dei piani inferiori, nonostante la presenza di una zona vetrata verso un giardino per il riposo dei visitatori, alcuni ambienti sono completamente illuminati con luce artificiale. Ciò va contro la ricerca architettonica più tarda di Kahn, il quale addirittura affermerà: “Appena vedo un progetto che tende di propormi spazi senza luce, non faccio altro che respingerlo con la massima disinvoltura, perché capisco che è sbagliato. E quindi, i falsi profeti, come le scuole prive di luce naturale, sono decisamente anti-architettonici. Appartengono a quello che uso chiamare il mercato dell’architettura, ma non all’architettura vera e propria”. Con questo non si intende abbattere l’opera di grande valore architettonico di Mies van der Rohe, poiché probabilmente questi ambiti vennero chiusi appositamente per realizzare ambienti con funzione di magazzino, ma è anche vero che lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere diversamente, fornendo anche a questi ambienti la luce necessaria.
Come già accennato, la copertura, sottoforma di griglia ortogonale di travi metalliche coperta da una piastra continua compressa rinforzata da nervature in acciaio sull’intradosso per impedire fenomeni di instabilità, viene sorretta da otto pilastri (due per lato) in accaio a sezione cruciforme e tale riduzione della struttura porta in gioco il concetto di “Less is more”. I pilastri non stanno agli angoli per evitare la possibilità di individuazione del volume puro.
La precisione nei dettagli della struttura è fortemente individuata nella connessione dei pilastri con la lastra di copertura, che in quanto manifesto degli osannati concetti “Less is more”, verità del costruire e manifestazione del procedimento costruttivo, viene ridotta ai minimi termini.
Il funzionamento statico del giunto sferico di 16 cm di diametro, viene probabilmente ripreso dalla Turbinenhalle di Behrens, dove un simile sistema articolava i portali e il suolo.
La cura dei dettagli è anche esplicitamente visibile nel grado di rastremazione verso l’alto della colonna, nonché rapporto tra la sua lunghezza e quella dell’ala.
Tutto quello detto finora ci porta a ritrovare delle possibili rimembranze, da parte dell’architetto, del tempio greco su podio.
Lo stesso Mies affermava: “Volevo qualcosa che armonizzasse con la tradizione schinkeliana”.
Tuttavia per molti critici, tra cui Zevi e De Fusco, l’atmosfera classica, poiché fuori tempo massimo, risulta troppo pomposa o meglio come afferma lo stesso autore: “Il mito del tempio greco, della purezza, suona ormai inattuale, fuga dalla realtà”. Eppure è possibile ricercare una giustificazione a questo nel suo attaccamento al luogo di formazione e nella sua volontà di realizzarvi una sorta di monumento o reliquiario e questo desiderio trova la sua più semplice ispirazione nel mondo classico. Quest’ultimo tuttavia viene filtrato dal linguaggio della modernità: il capitello quindi viene reinterpretato, proponendo una manifestazione spoglia di ogni valenza decorativa del procedimento costruttivo.
Il discorso sul tempio ci riconduce inevitabilmente alla simmetria, insita specialmente nel secondo livello. Ma tale concetto viene smentito dalla possibilità di modifica della partizioni interne e, all’esterno, dalla disposizione di scale secondarie agli angoli nord – est e sud – est della piattaforma, che negano l’evidente simmetria e il segnalamento di un unico percorso dati dalla grande scalinata in asse rivolta ad est.
Anche la stessa copertura quadrata devia e distrugge la possibilità di ottenere un asse preferenziale.
Dal punto di vista del soleggiamento, Mies pone delle tende, che permettono di graduare la luce, e frangisole, generati dalla stessa lastra di copertura che gira tutta attorno a creare una peristasi, che la filtra. Questo rese il museo per certi versi inospitale, luogo dove esporre solo oggetti molto grandi, poiché l’immensa estensione interna (interrotta solo da due condotti per impianti e un corpo scala che giunge al piano inferiore) creava una forte dispersione di opere d’arte di modeste dimensioni. È stato osservato dallo Zevi:”…se l’epigramma “il meno è il più” assumeva una funzione moralizzatrice nel clima dell’Existenzminimum, applicato ad opere costose e monumentali perde significato”dunque contesta anche l’ampiezza dell’edificio che devitalizza il valore dell’opera. Il Benevolo è invece di opinione molto differente: “Le sue opere, e anche questa Galleria, non complicano, ma riducono gli organismi edilizi alla forma più elementare. Per ogni tema egli stabilisce un “meno” di organizzazione spaziale, che rende possibile un “più” di controllo della forma e della distribuzione…”
Infatti, è vero che Mies stesso riconosceva con modestia questo problema, tuttavia, andando contro la stessa mente produttrice dell’opera, sta nella maestria dell’allestitore creare un ambiente accogliente e riuscire a fare in modo che tutta questa grande disponibilità spaziale non venga sperperata. Mies si impegna a realizzare un ambiente con grandi possibilità distributive, attraverso la pianta libera egli crea un ambiente flessibile alle molteplici esigenze.
Zevi mette a paragone la Galleria d’arte di Mies van der Rohe con Philarmonie berlinese di Scharoun: “Involucro reticente, tenda dissimetrica, quasi provvisoria, in tacita polemica con l’adiacente galleria d’arte di Mies van der Rohe: questa postula un oggetto ellenico, puro ed astratto, timoroso di essere sporcato dai fruitori; la Philarmonie invece calamita i passanti, li invita ad entrare, dice che potrebbero camminare anche sulla copertura…Nell’arcaico museo miesiano si resta sempre estranei al dipinto o alla statua; qui ci si tuffa in una conchiglia sonora…”
Senza annientarlo né elogiarlo, Benevolo afferma: “La tettoia non invita né respinge ma propone solo un passaggio tra lo scoperto e il coperto”. Si manifesta con semplicità evitando magniloquenza e spettacolarizzazione ma solo offendo al visitatore un luogo dedicato all’arte.


Bibliografia:
Neumeyer Fritz – Mies van der Rohe, le architetture e gli scritti, Zanichelli 1996
De Fusco – Mille anni di architettura occidentale, 1993
Benevolo – Storia dell’architettura moderna, 1960
Schulz Franz – Mies van der Rohe, Milano 1989
Zevi Bruno – Storia dell’architettura moderna, Einaudi 1973

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