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Guggenheim Museum - New York 1943-1959 - Frank Lloyd Wright

Tesina scritta nell'ambito del corso di storia dell'architettura II

Nel 1943 l’industriale e filantropo americano Solomon Guggeheim, guidato dall’amica ed esperta Hilla Rebay, commissiona a Wright un museo nel quale esporre la sua ormai vastissima collezione di opere d’arte astratta. L’edificio sorge sulla Fifth Avenue, a metà tra il Rockefeller Center e il degradato quartiere di Harem, tra il lusso e la miseria. Tra il monotono ripetersi delle superfici verticali delle “curtain-walls”, Wright decide provocatoriamente di inserire l’eccezione: l’insolito volume curvo di cemento, che si proclama denuncia e rottura di quella manifestazione esasperata del capitalismo e di quella standardizzazione che ha portato alla perdita del rapporto con l’individuo. Per queste ragioni l’edificio provoca una forte opposizione: scomparsi sia Wright che Solomon Guggenheim prima che il Museo sia completato, nel 1959, vengono imposti alcuni cambiamenti relativi alla superficie esterna e i lucernari della galleria principale sono ricoperti, cosicchè la luce artificiale all’interno viene moltiplicata fino ad annullare ogni effetto di illuminazione studiato da Wright.

Solo nel 1992 la rampa a spirale della galleria verrà riportata ad una condizione conforme a quella del progetto originale. Nella progettazione una prima difficoltà è posta dalla ristrettezza del lotto di terreno a disposizione: il diretto contatto con un asse viario molto transitato e caotico rende difficoltosa la creazione di uno spazio mediativo, necessario per potersi addentrare nella fruizione dell’arte, e impossibile stabilire una qualche forma di dialogo con il parco antistante. Wright risolve comunque il problema arretrando l’edificio riapetto all’allineamento continuo della strada. Giunti all’interno, mancando i presupposti per un dialogo tra realtà contigue ma contrastanti, ci si rende conto di come l’edificio sia orgogliosamente isolato dall’esterno e costituisca uno spazio autonomo, con accessi ridotti all’essenziale a livello della strada e caute aperture ai livelli superiori. La luce acquista il ruolo di elemento primario, all’interno come all’esterno, dove si produce un’espressionistico effetto positivo-negativo, che riconduce alle architetture di Mendelsohn. La forma che Wright ritiene più adatta a sintetizzare i suoi principi e le sue intuizioni è quella di una spirale, uno “spirito che cresce verso l’alto e verso l’esterno” in un continuo divenire, senza principio né fine. La caratteristica forma ricorda un progetto redatto da Le Corbusier tra il 1930 e il 1939, ma mai realizzato: si tratta di un Museo a crescita illimitata costituito da una spirale quadrata impostata su pilotis. Wright si ispira inoltre ad uno schizzo realizzato nel 1925 per il suo progetto del “Gordon Strong Automobile Objective and Planetarium”, una sorta di “ziggurat” dedicata al culto della natura.
La struttura del museo, con il corpo principale costituito da una percorso elicoidale, rievoca il principio fondamentale di uno dei maestri di Wright, Sullivan con il suo “Form follow function”. La peculiare forma trova infatti numerose ragioni d’essere di carattere funzionale:
1) Agevola fisicamente il visitatore che, giunto al settimo piano con gli ascensori, percorrerà la rampa in discesa e alla fine della visita si ritroverà in prossimità dell’uscita;
2) Permette di focalizzare l’attenzione sulle opere, poiché il visitatore trovandosi in cima alla struttura avrà modo di soddisfare la sua curiosità e durante la discesa il suo sguardo non sarà calamitato verso l’alto e verso la vetrata che chiude la cavità centrale;
3) La svasatura, abbinata all’uso di lucernai inclinati, consente un illuminazione naturale e diffusa delle opere esposte, in modo da non abbagliare e colpire le superfici in modo diretto;
4) La forma dell’edificio fa sì che esso sia protetto dagli agenti atmosferici;
5) L’inclinazione delle superfici murarie esterne è inoltre funzionale per rendere fruibili le tele esposte, che in caso contrario risulterebbero rivolte verso il basso;
6) L’ampiezza crescente di pari passo con l’altezza, consente infine di trarre una superficie maggiore da un lotto di piccole dimensioni.
Talvolta però la critica ha individuato nella scelta formale della costruzione un intento ironico verso la prassi del movimento moderno ed in particolare verso quell’ideologia purista. Zevi descrive il Guggenheim Museum come “una strada ascendente, spiraliforme, che prolunga quelle della città ma contestandone la scacchiera ortogonale…”. Tafuri vede nella scelta della spirale il simbolo dell’eterno ritorno, di una sintesi non conclusiva, ma in evoluzione. Secondo il critico però la geometria non è per Wright né uno strumento ne un fine: si tratta, come pure la tecnologia, di un ostacolo da vincere, da “sublimare testimoniando la vittoria dell’atto che le manipola”. Eppure non è possibile negare l’evidenza del reale, così per il Museo viene scelta una forma che ricorda quella di un disco volante, metafora di un futuro elettronico. Tafuri fornisce inoltre un’interpretazione diametralmente opposta a quella più diffusa circa l’uso wrightiano della luce: secondo lui i raggi solari radenti che penetrano dai lucernai costituiscono un invito ad accelerare il percorso, distogliendo ogni attenzione dagli oggetti pittorici esposti, frutto di quelle avanguardie con le quali Wright vuole entrare in polemica.
Da un punto di vista costruttivo l’impianto si compone di due corpi di fabbrica messi in relazione da una loggia aperta: un blocco cilindrico di piccole dimensioni, dove si trovano gli uffici, e l’edificio principale, che ospita la galleria a spirale, sezioni dedicate alla fotografia, alle installazioni, alla Video Art, al cinema sperimentale, la celebre Rotunda al piano terra, dove sono organizzate esposizioni temporanee, il Peter B. Lewis Theater, vari caffè e bookshops.

L’intero percorso è scandito da setti murari, 12 posti ad intervalli di 30°, con funzione strutturale e architettonica al tempo stesso; si tratta infatti di pilastri estremamente allungati, posti radialmente, che creano una serie di salette espositive distinte. La linea concava della rampa spiraliforme si ribalta in corrispondenza dei collegamenti verticali, scale e torre dell’ascensore. Quest’espansione convessa trova spiegazione nella possibilità di creare punti di vista differenziati, interrompendo la continuità del persorso in modo da destare l’attenzione dello spettatore o creando un piccolo spazio di sosta. La rampa del corpo centrale è autoportante, mentre nel corpo cilindrico secondario, dove sono collocati gli uffici, lo scheletro portante è costituito dall’elemento che racchiude gli ascensori e da colonne che poggiano su mensole sospese ai solai del primo piano, retti da un muro continuo in cemento armato: la tecnologia è manipolata fino a farne un virtuosismo irriproducibile. La cupola vetrata che chiude il corpo centrale invece, fatta di travi compresse, è frutto del viaggio durante il quale ebbe modo di studiare l’architettura romana.

Bibliografia:
-Bruno Zevi – Storia dell’architettura moderna (1950)
-Kenneth Frampton – Storia dell’architettura moderna (1980)
-Manfredo Tafuri – Architettura contemporanea
-Renato De Fusco – Mille anni d’architettura
-Carlo Cresti – Il Guggenheim Museum (1965)
-Edward Frank – Pensiero organico e architettura di Wright (1978)
-Vincent Joseph Scully – F. L.Wright (1960)

Un vasto approfondimento sul funzionamento strutturale nel n° 760 di Casabella (Novembre 2007).

2 commenti:

  1. Ma tu ci sei entrata dentro a questo edificio incredibile? Credo che Wright si possa comprendere solo dal vivo... IO non ho mai visitato le sue opere, putroppo. Immagino però che si debba provare una particolare attenzione entrando in questo spazio che sale, anzi, che scende! Questo è il limite dello studiare l'architettura sulle foto: possimao solo farci un'idea vaga.
    Quanto a Zevi e soprattutto Tafuri, mi sembrano proprio delle enormi stupidaggini le loro...

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  2. Hai ragione, avendo uno smisurato capitale sarebbe fantastico studiare dal vivo tutte le architetture, anche perchè le foto sono fatte da professionisti che, per quanto bravi, non possono cogliere per intero le spazialità nè le sensazioni che provocano a chi vi è all'interno. è anche vero che gli stessi fotografi sono bravissimi a nascondere piccoli e grandi difetti. Zevi e Tafuri... che dire, PADRI FONDATORI DELLA CRITICA,ma umani e a volte non condivisibili...ma non diciamolo a nessuno!!

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