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Villa Farnsworth, Plano, 1946 di Ludwing Mies van der Rohe

Gli elementi che si ripetono sempre nella poetica di Mies sono sostanzialmente tre: la verità del costruire, la manifestazione del procedimento costruttivo, il meno è più “less is more”.
Col primo si intende il manifestarsi della struttura nella sua complessità, in modo tale che lo spettatore colga immediatamente la spazialità che lo circonda; col secondo si esprime l’onestà dell’architetto verso chi guarda l’opera, perché non nasconde la struttura statica mascherandola con strati d’ornamento, ma anzi la manifesta e dandogli decoro la rende elemento architettonico, facendo capire all’osservatore come questa “funziona”; col terzo si intende liberare l’architettura da orpelli ornamentali cercando di portarla all’essenziale per dare qualcosa di più.
A mio parere, consultando anche lo Zevi e il Frampton, ritengo che in villa farnsworth ci siano contenuti tutti e tre i principi della poetica di Mies, soprattutto l’ultimo; infatti entrambi i critici la considerano come l’apoteosi dell’espressione di Mies, del “quasi nulla” architettonico.
Mies nel 1945 incontra la neurologa Edith Farnsworth, cui era stato raccomandato dal museo of Modern Art. Spinta verso di lui da un’iniziale simpatia, che sembrava d’altronde essere reciproca, ella gli chiese di progettare una sorta di rifugio in campagna su un ampio terreno boscoso di quattro ettari, situato sul Fox River, ottanta chilometri ad ovest di Chicago. Mies confesserà che il lavoro gli è stato reso più facile dal fatto che si trattasse di una persona sola, e per l’ampiezza del terreno che proteggeva l’intimità della casa.
Il cantiere inizia nel settembre del 1949, e si conclude nel 1951. Vengono fatti due disegni di due versioni, una ancorata al suolo, e quella sopraelevata che verrà poi scelta; è molto verosimile che sia stata scelta quella rialzata perché il fiume di tanto in tanto straripa, e in questo modo non allaga la casa.
Il dottor Farnsworth, marito di Edith, non amò molto questa abitazione moderna, tanto che già nel 1962 la vendette a lord Palombo, un illuminato esponente del parlamento inglese che la arrederà solo con pezzi originali dell’architetto, lasciandola per il resto in parte abbandonata.
La casetta di Plano parte da un rettangolo come quello dell’esposizione di Berlino, con l’asse maggiore orientato nella linea est ovest, ma ritraendo le lastre che si proiettano all’esterno per andare a delimitare l’unica zona chiusa (da pareti) della casa, che è quella dei due bagni.




Zevi e Frampton sono d’accordo che qui Mies sia tornato alla casa intesa come “scatola”, racchiusa tra due lastre di calcestruzzo prefabbricato (pavimento e tetto) che misurano ventitre per nove metri ciascuno, e da un involucro di lastre verticali di cristallo. Le due lastre sono sostenute da otto pilastri a doppia T, quattro per lato, disposti ad una distanza di sei metri e settanta; con la lastra del pavimento alzata rispetto alla linea di terra di un metro e mezzo. Per arrivare alla quota del pavimento, tra questa e la linea di terra, viene interposta un’altra lastra, quella della terrazza, alla quale e dalla quale arrivano e partono due scalette intese anch’esse come ripetizione di lastre perché ridotte alla sola pedata, sicuramente un chiaro riferimento al de stijl.
Se gli otto pilastri a doppia T sono presenti sin dall’inizio della fase di studio, la scatola che sorreggono subisce delle variazioni. Da una parte l’atrio su cui arriva la scaletta d’ingresso, all’inizio era chiuso come mostra un plastico del 1947; dall’altra parte la disposizione del nucleo centrale cambia, inizialmente addossato su un lato migra in un secondo momento verso l’asse, senza però raggiungerlo.
Questa casa sembra essere innalzata sul posto, con i piani orizzontali appesi ai pilastri, ma questa sensazione viene subito smentita dalla cura del dettaglio propria dell’architetto. Una particolare attenzione è stata prestata alla realizzazione degli innesti tra le lastre e i pilastri, conformemente ai primi due principi di Mies: verità del costruire e del procedimento costruttivo. Infatti la struttura portante non è né mascherata, né rivestita, con gli innesti manifestati; questo fa si che il progettista sia in perfetta onestà verso chi guarda. Questa cura si percepisce anche nella levigatura dell’acciaio prima della verniciatura.
La casa è stata concepita come un rifugio per il Weekend, dove chi la abita è in completo contatto con la natura, ansi vi si sente immerso; per questo era necessario che non avesse né mura divisorie interne, né filtri con l’esterno. Infatti la pianta è completamente libera e le varie zone della casa sono schermate da pochissimi mobili, con le pareti esterne completamente vetrate.Le pareti completamente vetrate sono una grandissima innovazione perché quando si va a disegnare il prospetto, non si disegna la facciata ma i mobili che vi sono all’interno.
La pianta completamente libera e le pareti vetrate sono un esempio di “less is more”, ma quale è il più?Il più è proprio il rapporto interno-esterno, perché chi la vive può sentirsi immerso nella natura pur essendo sempre al riparo.
Riporto alcune parti che lo stesso Mies scrisse sulla casa: “Anche la natura dovrebbe avere una sua vita propria; non dovremmo distruggerla con dei colori, con le nostre case e con i nostri interni; dovremmo invece cercare di creare un’unità maggiore fra la natura, le case e gli esseri umani. Quando la natura vi appare attraverso le mura di casa Farnswort, essa assume un significato ben più profondo di quando siete fuori. Si chiede di più alla natura perché essa fa parte di un tutto più vasto.
Penso che casa Farnswort non sia mai stata veramente capita. Sono rimasto in quella casa dalla mattina alla sera. Fino a quel momento non sapevo quanto la natura potesse essere colorata. Bisogna badare ad utilizzare toni neutri negli interni, poiché fuori vi sono colori di ogni sorta. Questi colori cambiano in modo totale e continuo e vorrei dire che ciò è semplicemente magnifico
.”



Il colore della casa non poteva che essere il bianco perché questo colore è l’unico che riflette tutti i colori, così che può riflettere non il proprio ma i colori che ha attorno, e variare nelle stagioni e durante l’arco della giornata insieme al paesaggio.
Non è la casa nella natura, ma la natura nella casa, non siamo noi che la cerchiamo, ma lei che entra nella nostra vita. Questa casa è un elogio ma nello stesso tempo una sottomissione di Mies alla natura che però non lo ricambiò; infatti la casa senza aria condizionata ha molti problemi climatici: d’estate si moltiplicano gli insetti per il forte caldo, e d’inverno i vetri si appannano completamente per la condensa.
La parete vetrata non è tutta continua ma vi sono delle parti mobili che si aprono grazie a un perno centrale, in questo modo si ottiene una maggiore luce d’apertura per una superiore permeabilità. Se si osserva una sezione si nota che i portavetro sono stati molto studiati soprattutto nelle giunzioni con la struttura portante, giunzioni che si ottengono grazie alla giustapposizione di diversi profilati che ancora non vengono nascosti. In questo senso si può parlare sicuramente di cura del dettaglio di Mies.
Se i pilastri a doppia T sono presenti sin dall’inizio delle fasi di studio, la disposizione del corpo centrale interno varia più volte: prima era addossato in un lato, poi si trovava al centro e divideva simmetricamente il tutto e in fine sembra avvicinarsi all’asse ma non lo raggiunge.
La villa è orientata perfettamente infatti abbiamo il soggiorno a sud; la camera da letto a est così che si può essere svegliati dal sole; i bagni e la cucina a nord; sala da pranzo a ovest e ingresso a sud.
Anche all’ingresso è stata data una particolare attenzione, infatti non si entra immediatamente nella casa, ma c’è una zona di passaggio dove troviamo già la copertura ma non ancora le pareti ventrate.
I bagni sono disposti completamente all’interno dell’ edificio e quindi non hanno aperture lungo le pareti laterali, aperture che molto probabilmente hanno sul tetto visto che sopra di essi, si vede chiaramente una struttura. Questa struttura accoglie anche le acque piovane che non sono smaltite con un sistema di grondaie ma fatte convogliare nel nucleo e incanalate direttamente nelle fognature.



Bibliografia

-Storia dell’architettura moderna, Kenneth Frampton, Zanichelli Editore, Bologna, 1986, pag. 278-279.
-Storia dell’architettura moderna, Bruno Zevi, Einaudi, Torino, 2004, pag. 115-121.
-Ludwig Mies van der Rohe, Jean – Louis Cohen, Editori Laterza, Bari, 1996, pag. 84-89.
-Domus, no 838, 2001, July, pag. 48-55.
-Casabella, vol. 65, no 692, 2001, september, pag. 4-5.

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